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DI DOMENICA IN DOMENICA - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 11 aprile 2021


L’alfabeto pasquale dell’amore.


Nel vocabolario della Pasqua, alla lettera “S”, prima della parola “sudario” c’è la parola “speranza”. È speranza l’arte di custodire dentro nel cuore i germogli e credere ragionevolmente che ai germogli bisogna obbedire più che al seme secco, che la nostra verità sta nella domenica più che nel venerdì santo, anzi, che la stessa verità del venerdì santo è la domenica di Pasqua, che il venerdì santo è già Pasqua, cioè passaggio, attraversamento, transizione, salto, “collocazione provvisoria” (Tonino Bello), strada verso la domenica. Ed è speranza quella voce del cuore che ti implora di non abitare il venerdì santo, di non costruire casa nei luoghi di passaggio, ma di prendere per mano le tenebre e accompagnarle allo stupore dell’alba, del buon mattino, del sole caldo che scioglie il ghiaccio e i nodi che ingolfano la vita. Custodiamo troppo spesso con ferocia, rabbia e sensi di colpa i brandelli sgangherati di vita che vorremo buttare via.

I confessori testimoniano un’altissima verità: si può sopravvivere con ottimismo facendo finta di non avere nessuna ferita, ma si può vivere soltanto sgranando gli occhi sulla realtà mai perfetta ma sempre così preziosa e gravida di frutti anche nelle parti più marce (“dal letame nascono i fior”, Fabrizio de Andre’). È la preghiera quella sosta feconda che aiuta l’uomo a puntare i riflettori della vita proprio sulle ferite. E quando il male si accorge di essere illuminato, smascherato e riconosciuto, come un pipistrello protesta, sbraita e stringe i denti quasi a vendicarsi e mordere quel poco che è rimasto da rosicchiare. È la lotta del sabato santo, quando Gesù va ad evangelizzare con l’alfabeto delle ferite chi era già morto: va a svegliare Abramo, Mosé e i profeti strappandoli agli inferi inviperiti per la loro sconfitta. Gli racconta di nuovo quel “protoevangelo” della creazione: Dio vide l’uomo che aveva fatto, ed ecco era cosa molto buona, immagine sua, specchio in cui riconoscersi e partner con cui rischiare in amore fino a incidersi addosso le ferite della croce.

Ecco l’alfabeto del Vangelo, l’alfabeto della Pasqua. Le ferite sono l’alfabeto dell’amore, dell’amore più grande, dell’amore che convince persino Tommaso e quelli che per tutta la storia non vedranno le ferite del Gesù storico, ma lo riconosceranno “pinto della nostra effige” (Dante alla fine della Commedia divina): «beati quelli che non hanno visto e hanno creduto», cioè, beati saremo noi, già santi saremo noi quando non avendo visto, crederemo e sentiremo Dio che feconda le ferite, le fatiche e le debolezze nostre. Perciò non sono da aspettare cose nuove, ma riconoscere che Lui fa nuove tutte le cose (Ap 21,5), ovvero, occorre guardare con occhi nuove le stesse cose, liberati dall’ergastolo in cui ci avevano recluso quelle nostre ferite diventate i nostri carcerieri.

Un messaggio così non può lasciar tranquilli. Deposita nel nostro cuore in sentore di essere in tremendo ritardo. Come non sentire il bisogno di correre. Come non obbedire a quell’“incredibile bisogno di credere” (Julia Kristeva). Si intravvede in questo che è il vero Vangelo, l’unico messaggio che è urgente donare al mondo (kerygma, in greco), qualcosa di immenso, di immortale, di eterno che non riguarda quello straordinario rabbi di Nazareth e qualche credulone che la Chiesa chiama “santo”, ma che urla anche a me da quelle ferite redente e col linguaggio delle mie ferite da redimere. Non sono spettatore di questa storia, ma protagonista invitato sul palcoscenico, invitato a non temere, non perché sono forte io, ma perché il regista di questa storia è più forte di ogni dolore che incatena il mio cuore. C’è da correre interiormente al sepolcro, ai sepolcri, alle esperienze cadaveriche che quotidianamente seppelliamo, cospargiamo di mirra e aloe perché non puzzino troppo e chiudiamo con grandi massi che pensiamo inamovibili. C’è da raggiungere le ferite, scoprire che Dio è già passato a rotolare via il masso, entrare e parlare con loro. In fondo, vivere (non vivacchiare!) non è altro se non un continuo tentativo di liberare i cuori dai sepolcri, una corsa dove l’amore ha una velocità superiore ad ogni altra motivazione (ecco perché il discepolo che Gesù amava corre più veloce di Pietro) e la motivazione dell’amore è quella che le ferite non hanno più ragione del raggio di luce che passa attraverso di esse, che le ferite ci sono, ma sono l’alfabeto con cui Dio incide la sua storia nella nostra storia, la sua Vita scritta nella nostra vita, la sua eternità innestata nella nostra quotidianità.


don Giammaria Canu



E. Burnand, I discepoli Giovanni e Pietro corrono al sepolcro il mattino della Resurrezione (1898). La luce del sole nascente brilla nelle pupille sgranate e incredule di Pietro e il volto di Giovanni è definito da ciò che sta guardando: lui era presente sul Golgota alla lezione d’amore più nobile della storia.


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