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DI DOMENICA IN DOMENICA - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 13 febbraio 2022.


Nulla è piccolo se fatto per vocazione.


Ogni anno arrivano sempre in questo periodo le Beatitudini, la ribellione della fede contro la possibilità che il male (la povertà, la fame, il pianto, l’odio) sia la parola definitiva di una vita. Non c’è vita che, al momento della sintesi finale, pesata al bilancino dall’arcangelo Michele, possa pendere per il male: strizza strizza, di fronte alla Croce non c’è vita umana che non valga la pena pensare (solo Dio sa come!) salvata. Oppure il Golgota è stato solo una inutile messa in scena di un Dio regista fallito (von Balthasar).

Pensiamo un po’ le Beatitudini di Luca sulla scia dell’orizzonte aperto dalla pesca miracolosa della settimana scorsa. San Pietro, in una delle sue migliori prestazioni apostoliche, o meglio in una delle sue “professioni di fede”, o meglio ancora, in una delle sue “promesse da marinaio” aveva “miracolosamente” sentenziato: «abbiamo fallito per una notte intera, ma ancora non avevo pescato sulle acque della tua Parola»… e sulla sua parola, tutto diventa immenso: le reti si gonfiano, gli amici di sventura sono contagiati dallo stesso miracolo, lo stupore invade tutti, le barche quasi affondano e alla fine Pietro, in pochi istanti cambia tre mestieri: da pescatore, a peccatore, a testimone. Dalla notte dell’assurdo fallimento alla scoperta di essere scelti per strappare via altre vite dagli orrori delle notti interminabili. E senza mai una volta che il Signore garantisca a Pietro che quelle notti, quei fallimenti, quegli errori smetteranno di perseguitarlo. Perché la verità, quella che verrà fuori alla fine del Vangelo di Giovanni, è che Pietro deve accettare di non sapere ancora amare: «ti vorrei amare, ma sbaglio sempre. E mi vengono i brividi» (da un [mio!] midrash sul vangelo di Mahmood e Blanco!). E missà che nessuno è nato per morire aggiustato. Tutti siamo vivi per sentire il brivido di trasformare le macerie in capolavori e poi ripartire da altre macerie e altre macerie ancora. È una vocazione non a fare cose grandi, ma a fare grandi le cose, anche quelle storte. E nulla è piccolo di ciò che è fatto per vocazione (upgrade dell’aforisma di Chiara Lubich: «nulla è piccolo di ciò che è fatto con amore»)!

Le Beatitudini confermano che c’è una vocazione anche nella povertà, nella fame, nel pianto, nell’odio ricevuto. «C’è dell’oro in questo tempo strano» (da una poesia di Mariangela Gualtieri). In ogni tempo strano, faticoso, contraddittorio sembra che si assista ad una contrazione della distanza tra l’uomo e Dio, come un tentativo di sempre nuove incarnazioni, come a degli aborti di teofania. Sono questi i tempi più propizi alla fede (kairoi): «credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro» (Kierkegaard). La fede è atto di ribellione di chi «rifiuta di ammettere che l’assurdo sia la realtà definitiva e che la notte sarà eterna e invoca un senso che nessuna spiegazione può dare. Come il buon ladrone crede a dispetto e nonostante tutte le evidenze in contrario» (Antiseri), oppure come Abramo che nel tragico pellegrinaggio di tre giorni al monte Moria con Isacco e senza vittima «spera di aver capito bene, di aver saputo interpretare i passaggi cruciali di un terribile esperimento di obbedienza» (de Luca).

Ora, la Chiesa in cammino sinodale potrebbe iniziare a non accontentarsi del ministero della consolazione come se fosse una “multinazionale del conforto”: tutti tranquilli, nell’eternità le cose si aggiusteranno! Non è mica così semplice! Anzi suona come una bestemmia se detto davanti all’orrore della sofferenza dei bambini (immagine dipinta da papa Francesco intervistato da Fabio Fazio e recuperata dalla struggente narrazione dei fratelli Karamazov di Dostoevskij). Ma la Chiesa potrebbe accompagnare l’uomo a scoprire che è proprio la fragilità (e non i propri talenti) ciò che permette di interpretare bene la propria vocazione. È il paradosso della fede a dichiarare che le vere ricchezze della Chiesa sono i poveri, gli affamati, i piangenti e gli emarginati. Come quell’immagine di san Lorenzo che porta al suo persecutore i poveri come il tesoro della Chiesa.

La ricerca della nostra beatitudine coincide con la ricerca della nostra fragilità e con l’amarla, anche se si sbaglia sempre, ma il tanto giusto da provare il brivido di aver solo risposto alla propria vocazione.



don Giammaria Canu


G. Courbet, L’immensitè (1869).

Inizia così il realismo in pittura: riconoscendo ad ogni elemento la propria vocazione di segnale stradale verso un altrove, verso l’onnipresente “più in là” (Montale).

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