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DICEVANO I PADRI - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 24 Settembre 2023.


Un buon padre.


Si dice che il momento attuale è il tempo dell’evaporazione del padre e che la figura paterna sia in fase di drammatica liquefazione, assieme ad ogni forma stabile di autorità. Eppure, non credo possa stare in piedi una società che non si sforzi di avere padri veri, quelli che «si adoperano perché la vita del figlio possa avere un senso, un significato e una direzione che vale la pena inseguire» (Recalcati); e non credo neanche che nei bisogni più profondi di ogni figlio manchi quello ineluttabile di avere un vero padre capace di raccogliere tutti i desideri e orientarli verso ideali alti, sogni nobili, capolavori da realizzare (per questo il padre è la figura familiare depositaria della capacità di motivare il figlio ad uscire, a volare alto, a rischiare la vita). Anche nella Chiesa, nel tempo della sua rilevanza “schiumosa” non si smette di cercare padri: «si cerca per la Chiesa un uomo senza paura del domani senza paura dell’oggi senza complessi del passato. Si cerca per la Chiesa un uomo che non abbia paura di cambiare che non cambi per cambiare che non parli per parlare» (don Primo Mazzolari).

Ora, per la teologia e per la fede c’è un modo sapiente per restare figlie e discepole azzeccando il giusto punto di vista dal quale leggere e lasciarsi travolgere dalle pagine del Vangelo: lo sguardo dei Padri. Chi sono? Sono uomini e donne (purtroppo queste ultime rimaste in ombra a tessere nel silenzio le trame robuste della fede di quei secoli!) di grande nobiltà d’animo, inseguitori dello Spirito Santo durante i primi tentativi imbranati della Chiesa, i primi passi barcollanti della Chiesa su questo mondo, le prime uscite adolescenziali della Chiesa nella piazza dell’umanità. Si chiamano Padri non solo perché hanno generato alla fede una marea di fedeli, ma anche perché, passati alla vecchiaia hanno scommesso che i loro figli diventassero a loro volta padri, mostrando che la vita ha un senso e una direzione veramente alta e altra. Sono Padri della Chiesa, perché appena intercettavano un seme lasciato cadere dal vento dello Spirito, loro si tuffavano e poi si fermavano a pregare… e respiravano. Fermavano tutto: la pastorale, le catechesi, la celebrazione stessa immobilizzate per poter mettere lo zoom su quel seme e capire che pianta sarebbe cresciuta, che albero sarebbe spuntato. E poi quell’albero lo coltivavano ringraziando il Dio di Gesù che non smette di fare miracoli; alla sua ombra, facevano crescere le comunità. A volte quei semi erano le storie dei martiri, il cui «sangue è veramente seme della Chiesa sempre nuova» (Tertulliano). Altre volte erano delle profonde intuizioni di un’intelligenza fine annaffiata con la preghiera e la vita di carità. Ma tutte le volte era soltanto il desiderio di cercare la verità e di lottare solo per la verità.

Ad ogni modo, i Padri della Chiesa parlando sempre dello stesso Vangelo, non smettono di tradurlo per i nuovi figli della Chiesa che diventano anche loro figli.

E non c’è modo migliore di iniziare questa nuova rubrica che gustando le parole di un Padre e pastore come Gregorio Magno sul Vangelo di domenica prossima. Si parla di vigna (l’umanità da curare con attenzione, proprio come le viti), di un padrone (che segue la logica della bontà più che della retribuzione), di lavoratori (ogni battezzato, disoccupato se Dio non lo chiamasse), di ore della giornata (quelle della nostra vita e della nostra libertà di scegliere il bene). La parabola è semplice: il padrone esce per 5 volte durante la giornata ad assumere i braccianti per lavorare la vigna. Accordatosi con i primi per un denaro, a fine giornata tutti, quelli che avevano lavorato 12 ore e quelli che avevano iniziato al tramonto, ricevettero sempre un denaro. Così il grande papa Gregorio che, dopo aver fatto notare che quell’imprenditore vitivinicolo era più un “padre di famiglia” che un padrone e che gli interessavano i lavoratori/figli più che la sua stessa vigna, aggiunge:

«Il padre di famiglia dice: voglio dare anche a quest’ultimo come a te. Siccome poi la conquista del regno è un dono del suo buon volere, a ragione soggiunge: o non mi è lecito attuare questa mia volontà? È follia, da parte dell’uomo, mettere in discussione la bontà di Dio. Per questo, ben a proposito soggiunge: o forse il tuo occhio incattivisce perché io sono buono? Nessuno poi si esalti per ciò che ha compiuto o per il tempo trascorso, dato che Dio dice in aggiunta: così gli ultimi saranno i primi i primi ultimi. Infatti, anche se siamo consapevoli di aver compiuto del bene, non sappiamo con quanto rigore si verrà sottoposti all’esame del Giudice supremo. Sia quindi per ognuno motivo di grande gioia l’entrare, anche come ultimo, nel regno di Dio».



don Giammaria Canu


A. Marini, Il figlio prodigo (1925). Il padre aggrappato al figlio esprime la potenza di una paternità che si realizza solo quando il figlio – ogni figlio, anche quello dell’ultima ora – scopre il dono della propria dignità che è quella di sentirsi amato da un padre buono che è l’unico modo di essere anche un “buon padre”.

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