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LA DOMENICA SULLE SPALLE DEI GIGANTI - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 4 Dicembre 2022.


Guarda meglio. Nel deserto si vede già!


«Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete? Aprirò anche nel deserto una strada, immetterò fiumi nella steppa». Isaia (43,18-19) sembra non resistere all’invincibile desiderio di dire come stanno le cose. “Accorgersi”, come “vegliare”, “stare pronti”, “andare incontro”, è verbo d’Avvento. Quanto bisogno c’è oggi di tanti Isaia, tanti Giovanni Battista e tanti papa Francesco! Almeno quanti sono i like che illudono di aumentare la dignità del proprio stare al mondo: ho senso perché piaccio! «Non ve ne accorgete che la strada da percorrere non è quella del tuttosubitocomodo, ma quella del pocoamatofaticato», ribadirebbe un Isaia nostro contemporaneo. Già: proprio perché il Vangelo insegna che se non si impara che il contrario dell’avverbio sguaiato “subito” sia l’avverbio di stile “con amore” si è lasciato volar via l’Avvento al vento, anche questo Avvento al vento, l’ennesimo Avvento al vento! Vivere il poco, con amore e anche con fatica «vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (Mc 12,33) immolati alle divinità pagane della religione del tuttosubitocomodo. A questa religione pagana e ormai diffusa il Vangelo oppone, con mite umiltà e amorevolezza, la strada nel deserto, la strada del deserto, l’unica cosa che non smette di restare nuova: ripartire dal deserto ti fa sempre nuovo, mentre le novità, come quelle tecnologiche dei templi social, hanno sempre una brevissima conservazione: una cosa nuova diventa subitissimo vecchia. «La novità è la cosa più vecchia che ci sia!» (Benigni che invita al rischio dell’innamoramento). E invece Cristo, «colui che siede sul trono», re dell’universo dice: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5). E Cristo è ripartito proprio dal deserto, lì dove Giovanni Battista aveva lasciato, lì dove i padri erano entrati a gustare il latte e il miele della Terra Promessa, lì dove la promessa di Dio deve lottare coi progetti minuscoli della superbia umana.

Seconda domenica di Avvento, quindi: il deserto con il padre dei padri del deserto, e il servo dei servi di YHWH, l’ultima briciola profetica di Primo Testamento: Giovanni Battista.

La settimana scorsa ci ha lasciati un gigante francese di altissimo spessore: Christian Bobin. La sua parabola su questo mondo (perché si parla già di lui come di uno dei tanti “poeti eterni”) è stata silenziosa come il vuoto di cui ha cantato la sovranità (La sovranità del vuoto, 40 pagine da gustare in un sorso!). Quella cifra essenziale della vita che è il vuoto è una prelibatezza: «ti parlo a partire da questo dono d’inesistenza ripartito in modo uguale tra ciascuno di noi. Inalienabile uguaglianza davanti al vuoto, l’orrore del vuoto, la sovranità del vuoto. Che noi la rinneghiamo o no, poco importa. Noi siamo lì. E lì accadono gli incontri». Per lui il vuoto corrispondeva alla vocazione di ogni cosa all’incompiutezza: «l’incompiuto, l’incompiutezza sarebbero essenziali ad ogni perfezione». Una vocazione al grido, un disperato richiamo al tu, l’irresistibile bisogno di qualcuno che passeggi sul bordo del mio vuoto: «ho eseguito un gesto irreparabile, ho stabilito un legame» (Borges, che grande gigante anche lui!). E ogni legame ha bisogno di una cavità, di un vuoto, di un deserto per attraccare durante la burrasca.

Non poteva iniziare meglio il nuovo anno liturgico se non col deserto e la voce di Giovanni Battista. Però mi faccio nanetto e lascio parlare ancora po’ Bobin che avrà già iniziato a colmare i suoi deserti nella Vita vera. Sulla bocca del Battista mette queste parole su Gesù, il primo Veniente incontro all’uomo: «Lui è il primo venuto. Il primo venuto è più grande di noi. Bisogna guardarlo nel movimento del venire, nella fiducia in questa venuta. Non guardate me. Guardate il primo venuto e basterà, e dovrebbe bastare. Va dritto alla porta dell’umano. Aspetta che questa porta si apra. La porta dell’umano è il volto. Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno. Nei campi di concentramento i nazisti proibivano ai deportati di guardarli negli occhi, sotto pena di morte immediata. Colui di cui non accolgo più il volto – e per accoglierlo bisogna che io lavi il mio volto da qualsiasi residuo di potenza – quello io lo svuoto della sua umanità e me ne svuoto io stesso».

Questo era Gesù per Giovanni Battista: «Vuoi sapere chi tu sei per me. E allora ecco: tu sei colui che m’impedisce di bastarmi» (ancora Bobin!). Ecco a cosa serve il deserto: a convertirsi in direzione della convinzione che, se imparo a non bastarmi, io sono già un capolavoro, ma servono occhi liberi, orecchi attivi e cuore alato. Insomma: servono pennellate di deserto alle nostre vite troppo schizzate: «Ho corso sulla terrazza con una formica e sono stato battuto. Allora mi sono seduto al sole e ho pensato agli schiavi miliardari di Wall Street» (sempre Bobin!).


don Giammaria Canu


Leonardo da Vinci, San Giovannino (1513).

La pittura è un vestito di bello che veste il vero. E in questo senso ogni arte, anche quella di raccontare parabole, fare miracoli e morire in croce, è l’abito con cui si presenta la verità, è l’indice puntato verso l’Alto, l’inizio, la fine e il fine di ogni verità. In questo, arte e deserto, sono i punti d’osservazione privilegiati per veder-ci e veder-si meglio. Sarà per questo anche che ogni volta che entro al Louvre evito di torturare lo sguardo e l’erudizione dribblando le teste degli spettatori della Gioconda e mi fermo al corridoio prima a fissare quel nero deserto caravaggesco che fa emergere questo san Giovannino sornione e più vero.

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