LA DOMENICA SULLE SPALLE DEI GIGANTI - a cura di don Giammaria Canu
Domenica, 9 Aprile 2023.
Non si sa come dirlo ma quel vuoto è vero.
Se dopo duemila anni siamo ancora qui a parlare, raccontare, discutere, bisticciare, confessare, abbracciare, rifiutare, consolare, accettare, tollerare, rafforzare, investigare, disegnare, rattoppare, frequentare, aggiustare, indirizzare, professare… la nostra fede nella risurrezione, forse le letture possibili sono almeno tre: o che la mamma degli stupidi è sempre incinta; oppure, che Dio si diverte a giocare a nascondino; oppure che il mistero Pasquale è qualcosa/Qualcuno di infinitamente vero e allo stesso tempo di infinitamente più grande delle nostre capacità razionali da non spegnere mai le nostre domande. La cosa affascinante è che la nostra comprensione non ne esce indebolita, ma la Risurrezione la stuzzica in un modo talmente fine che ci fa sorridere sia il pensiero di poterne acchiapparne un giorno la totalità (magari con una versione superimplementata di ChatGPT), sia quello di stufarci di interrogarla.
Il problema rimane: cosa c’è da dire sul vuoto? Cosa descrivere del nulla lasciato da Gesù all’interno di quel sepolcro? Di cosa parlare se il mistero ci ha tappato la bocca (dal verbo greco myein, chiudere la bocca) e sfondato il cuore? Gli stessi evangelisti per descrivere la risurrezione prendono in prestito, con non poco imbarazzo, i verbi dei nostri mattini: svegliarsi, alzarsi, stare in piedi, uscire fuori. Sono i verbi delle nostre risurrezioni quotidiane che contestano il solleticante calore del letto e protestano contro le tenebre della notte, facendoci scoprire che la verità della nostra vita è altrove, che la nostra vita è vera quando sta in piedi e cammina, anzi, corre. Nei Vangeli della Veglia, come quelli del giorno di Pasqua, tutti sono in cammino confuso, corrono, si inseguono, sbandano da una parte all’altra, accelerano e ripartono in fretta. La fretta di chi sa di essere in ritardo e che è tutto tempo perso quello passato lontano dall’amico, dall’amato, dall’Amore. Chi ama si sente sempre in ritardo, sempre in difetto, sempre pentito di aver disobbedito anche per un solo istante al richiamo dell’amato. Quindi, se corrono, qualcosa di vero e di imperdibile ci dev’essere. E infatti non sono solo i personaggi dei vangeli che corrono verso quel sepolcro vuoto: ci sono uomini e donne di tutti i tempi, ci sono soprattutto i cercatori di senso, quelli che il senso della vita lo hanno perso, ai quali le ferite hanno tolto il senso della vita, il sapore del vivere, il gusto dell’esserci e dello stare al mondo. E poi ci sono loro, i poeti e gli artisti, secondo me i più adatti a raccontare il vuoto come un grembo, come il buio sotterraneo abitato dal seme che sogna e che da sotto spinge per venire alla luce come erba, come spiga, come grano baciato dal sole. Lo stesso Spirito che ha animato il Risorto anima anche poeti e artisti muovendoli a bisbigliare qualcosa di quel vuoto, di quell’Assente all’appello della storia, di quel silenzio zeppo di domande, di paradossi, di inediti, di imprevisti, di inaudito e di indicibile. C’è ben poco in quel sepolcro, ma c’è tutto quello che basta a rendere l’assenza la più alta dichiarazione d’amore della storia. Al genio artistico non poteva sfuggire questa occasione di accettare la sfida di raccontare e raccontarsi davanti a quel mistero che spalanca “interminati spazi, sovrumani silenzi e profondissima quiete” (Leopardi).
Il grande poeta Rainer Maria Rilke riconosce in quel vuoto la verità definitiva su Gesù, venuto al mondo per indicare la meta, la fine e il fine della nostra vita: «la volontà di Cristo era certamente quella di indicare. Ma qui gli uomini si sono comportati come i cani, che, credendo di dover afferrare l’intera mano, non comprendono il segno di alcun dito. Invece di proseguire oltre il crocevia, dove era stato innalzato un indicatore la notte del sacrificio, la cristianità si è accampata ai suoi piedi sostenendo che Cristo si trovasse lì, sebbene lì non fosse ravvisabile alcuno spazio, neppure per sua madre, né per Maria Maddalena, perché quello altro non era che un indicatore e, in quanto tale, non un luogo di soggiorno» (Su Dio).
Il sepolcro vuoto diventa spazio aperto, ospitale e infinito per il cuore affannato:
«Cieli inondati di profuse stelle
splendono sull’affanno. Volgi in alto,
non tra i cuscini il pianto. Già da qui,
al bordo estremo del tuo volto in lacrime,
attorno a sé palpando,
inizia lo spazio del mondo
impetuoso. Chi potrà arrestare,
se è là che il flusso ti trascina,
la corrente? Nessuno. E fossi pure tu
a contrastare d’un tratto il corso poderoso
di quegli astri verso te. Respira.
Respira il buio della terra e ancora
alza lo sguardo. Ancora, lieve e senza volto,
dall’alto su di te si posa qualcosa di profondo,
il volto celato, dissolto nella notte
apre al tuo lo spazio» (Poesie alla notte).
don Giammaria Canu
Maestro di Ravdà, Croce bicefala dell’Anastasi (Piana degli Albanesi, XVII sec.).
E' potentissimo il tentativo orientale di rappresentare la Pasqua con la discesa agli Inferi del Crocifisso e raccontare la verità che l’Amore vince la morte di ogni tempo e di ogni geografia.
Comments