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LA DOMENICA SULLE SPALLE DEI GIGANTI - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 11 Giugno 2023.


Il pane-per-dono.


Aleggia nell’aria di questi giorni una vaga sensazione di non andare precisamente a bersaglio sull’Eucaristia. Tutta un’impalcatura catechistica (e non catechetica e perciò non vitale, non esperienziale, né testimoniale) investe energie e argomenti per insegnare che al cuore del mistero del Corpo e Sangue di Cristo c’è del pane e del vino che diventano la realtà immensa, eterna e irrazionale di Gesù in persona presente in mezzo a noi. Tutto sacrosanto, ma è come conoscere a perfezione le regole del calcio e non aver mai messo piede in un campo da gioco. La festa della Trinità, invece, è stata come un aperitivo per introdurci alla vera festa del Dio-per-noi, Dio-con-noi, Dio-in-noi: di fronte alla storia di Gesù sembrerebbe quantomeno blasfemo pensare che possa esistere un Dio-per-sé, Dio-con-sé, Dio-in-sé. Lo ascolteremo domenica prossima. Come sempre non è questione di fare qualcosa noi per Dio, ma di accogliere ciò che Dio realizza in noi. E con l’Eucaristia, Dio per me, con me e in me realizza l’unica vera Vita, la vita stessa di Dio, la vita eterna dei risorti: «se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno». Per cui la Messa, la liturgia Eucaristica, l’adorazione Eucaristica, la processione del Corpus Domini non sono azioni dell’uomo, ma azioni di Dio da accogliere e riconoscere operative nella vita.

C’è un’esperienza fortissima che si vede molto bene e molto più a fondo se risaliamo ancora una volta nelle spalle del gigante Alessandro Manzoni, proprio in quel romanzo che si è sedimentato nelle nostre menti scolare ancora acerbe alla vita e che quando si è più forgiati dalle tempeste e frastagliati dalle bufere rilascia delle essenze profumate che connettono la tua storia alla storia di quei malcapitati “promessi sposi” di 400 anni fa. Si tratta dell’esperienza del “perdono”, una sorta di versione umana della protagonista del romanzo: la Provvidenza. Il perdono, chiesto e donato, è come la risposta alla Provvidenza: «Per me e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì grande ministero», predicava padre Felice di fronte alla tragedia della peste che divorava voracemente la carne dei poveri uomini che lui accompagnava per vera vocazione, per speciale privilegio e dono della Provvidenza. E parlava del ministero del “dono” più per-fetto, quello della Vita ricevuta che deve restare così come è: un dono che più doni e più ti arricchisci. Questo è il miracolo dell’Eucaristia: più doni più aggiungi Vita, proprio come Gesù, proprio come il grano macinato e l’acino spremuto, e proprio come fra Cristoforo dei Promessi Sposi che conserva il pane del perdono ricevuto per ricordarsi che anche lui è fatto per per-donare e che (per-)donando si riceve nuova Vita.

La storia è quella di Ludovico, un nobiluomo che uccide l’assassino del suo maggiordomo Cristoforo e imbocca il vortice della coscienza che rimprovera e invita a implorare il perdono. Dienta frate cappuccino e prende il nome di Cristoforo in ricordo del servo, morto per difenderlo e decide di andare nel palazzo del fratello del nobiluomo che aveva ucciso, per chiedere perdono. Davanti all’arrogante padrone di casa Padre Cristoforo si presentò con un atteggiamento così umile ed espresse un così sincero pentimento che tutti ne restarono toccati. Il nobiluomo lo perdonò, abbracciandolo commosso e offrì cibi prelibati al frate. Questi rifiutò il banchetto raffinato ma formulò una richiesta: «Ma tolga il cielo che io rifiuti i suoi doni. Io sto per mettermi in viaggio: si degni di farmi portare un pane, perché io possa dire di aver goduto la sua carità, d’aver mangiato il suo pane, e tenuto un segno del suo perdono […]. Più tardi egli mangiò con una specie di voluttà del pane del perdono: ma ne risparmiò un tozzo, e lo ripose nella sporta onde serbarlo come ricordo perpetuo». Alla fine del romanzo si scopre che il frate ha conservato quel pezzo di pane per tutta la vita: Padre Cristoforo, mentre a Milano infuria la peste, incontra Renzo e Lucia nel lazzaretto e dona loro «una scatola di legno ordinario ma tornita e lustrata con una certa finezza cappuccinesca» dove è conservato quel pezzo di pane: «“Lo lascio a voi altri: serbatelo; fatelo vedere ai vostri figlioli. Verranno in un tristo mondo, in tristi tempi, in mezzo ai superbi e ai provocatori: dite loro che perdonino sempre, sempre! Tutto, tutto! …” E porse la scatola a Lucia, da cui fu presa con riverenza, come si sarebbe fatto d’una reliquia».



don Giammaria Canu


S. Zec, Bread in hands. Il pane della misericordia (2016).

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