Chi urla, urla per amore.
Due urla disumane e disumanizzanti abitano le pagine del vangelo di queste due domeniche: il cieco Bartimeo con tenacia grida a Gesù: «Figlio di Davide abbi pietà di me». E domenica prossima, uno scriba non resiste dal chiedere al Rabbunì: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Quest’ultima sembrerebbe una domanda calma, pacata e discreta, ma nel profondo nasconde un’abissale inquietudine, quasi rabbiosa e stizzita: ma insomma, mi volete dire con chiarezza qual è la prima cosa da fare per non sbagliare mai?
In nocciolo della questione è che l’uomo occupa sempre nel mondo la posizione di Bartimeo, e guai se non fosse così. Anche quando sembra di camminare spedito per la strada, c’è qualche ingranaggio che, come una molla, lo riporta allo stato bartimeano: cieco, ai bordi per non intralciare il passo degli altri, mendicante. L’uomo, per natura sua, mendica. E quando la mendicanza non si accontenta di spiccioli, ma scopre che c’è dell’altro e di meglio, stringe i denti, raccoglie tutte le energie interiori e si trasforma in un urlo. È l’urlo di chi ha dei forti indizi che esiste una parte migliore da scoprire, da perlustrare, da ricercare. È l’urlo che denuncia la mediocrità di chi mendica felicità scalcinate, sdolcinate e puramente superficiali. È l’urlo di chi protesta perché la verità che deve essere democraticamente diffusa, conosciuta e soprattutto abitata sembra essere un diritto/privilegio per pochi. Ogni urlo, ogni domanda, ogni desiderio è un anelito di verità.
Se Bartimeo, che medicava una strada, una luce e una dignità, in Gesù ha trovato la via, la verità e la vita, lo scriba di domenica prossima assetato di verità ha scoperto in Gesù che è proprio vero ciò di cui la vita lo aveva convinto nonostante i 613 precetti della Legge: se proprio non vuoi sbagliare bersaglio, metti a fondamento di tutto l’amore e poi fac quod vis: ama, e poi puoi fare tutto ciò che l’amore ti trascina a fare. E così sai di non sbagliare perché chi ama, spesso si farà male, ma è sicuro di non sbagliare. Sant’Agostino lo diceva in questo passo che merita di essere restituito al suo contesto: «I fatti degli uomini non si differenziano se non partendo dalla radice dell’amore. Molte cose infatti possono avvenire che hanno una apparenza buona ma non procedono dalla radice dell’amore. Una volta per tutte dunque ti viene imposto un breve precetto: ama e fa’ ciò che vuoi; sia che tu taccia, taci per amore; sia che tu parli, parla per amore; sia che tu corregga, correggi per amore; sia che perdoni, perdona per amore; sia in te la radice dell’amore, poiché da questa radice non può procedere se non il bene».
Ecco cosa vale di più di olocausti, sacrifici, feste, sagre, e persino santi e processioni: amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come (un altro) te stesso. Ecco chi azzecca la vita e ne fa un capolavoro quotidiano. Ecco chi non è lontano dalla felicità eterna: chi scopre che Dio lo puoi amare sempre e con tutto te stesso, cioè chi scopre che è il tuo prossimo il Gesù più vicino a te, il più visibile, il più ascoltabile, il più fastidioso, il più odiabile e perciò il Gesù più amabile! Un conto, però, è saperlo con testa e cuore; un conto è saperlo con le mani e con i piedi, con il volto e con la lingua, con sudore e con passione. C’è in palio la patente per la vita eterna: lo scriba saggio ha passato la teoria, vediamo come se la cava con la pratica e i parcheggi in retromarcia. Secondo me ce l’ha fatta, ma è bellissimo e potentissimo che il Vangelo ci lasci l’acquolina in bocca giusto per provocarci e trasportare noi nei panni dei personaggi… E tu? Quanti chilometri sei lontano dal regno dei cieli?
In ogni caso, non c’è scampo: si urla sempre per mancanza d’amore e si rimpiange sempre di aver amato troppo poco o troppo tardi. Chi urla, come Bartimeno o come lo scriba, è perché ha trovato la radice, ma ha scoperto di esserne troppo lontano. Chi urla veramente chiede che gli venga gettata una corda per aggrapparsi e non affondare nell’abisso buio e mediocre del non senso.
don Giammaria Canu