Una cosa sola urge: credere.
Composizione di luogo: domenica scorsa il volo e l’atterraggio della Parola di Dio su Giovanni Battista dopo aver dribblato divinamente i pre-potenti della storia (Tiberio, Pilato, Erode, Filippo, Lisania) e del Sacro (Anna e Caifa); domenica prossima le domande al cugino di Gesù: se c’è da raddrizzare la vita per aprire un varco a Gesù, cosa c’è da fare in concreto? E soprattutto, alla radice di ogni domanda sulle cose da fare: cosa c’è da credere? Perché io, e spero anche voi, faccio solo una cosa in cui credo!
Ma a cosa serve credere?
Credere serve per scappare alla presa degli idoli, ma anche alla pretesa degli idoli di rendermi la vita una passeggiata s-pensierata (cioè senza pensiero) concentrata solo sull’io, sulla mia pancia. A proposito, piccolo apologo di Kierkegaard perfettamente tagliato all’idolo dell’egoismo: «La nave è ormai in preda al cuoco di bordo e ciò che trasmette al microfono del comandante non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». Giovanni urlava che bisogna contestare gli idoli e la loro prepotenza. E gli idoli sembra si moltiplichino in maniera smisurata e incontrollata in questa nostra società “documediale” (libero e acritico accesso a tutto lo scibile umano: leggere Documanità di Ferraris). L’ultimo idolo, a quanto pare difficile da debellare, mi sembra sia il gigante fantasma della sindrome cospirazionista: saremmo tutti cavie ignoranti o ignave di un potere sovragovernativo che inietta strane molecole capaci di poteri magici scappati persino alle severe supervisioni degli organismi scientifici internazionali di controllo e vigilanza. A me questo pare tanto un idolo, tanto che ha un suo tempio (piazze e talk shows), i suoi sacerdoti (santoni pseudoscienziati), i suoi adepti (no-vax) che urlano nelle piazze come una liturgia che si celebra ogni sabato (shabbat).
Ebbene, il vero miracolo è riconoscere che è possibile credere anche in questo tempo, nonostante l’indifferenza di molti, nonostante le poche e balbettanti risposte al mistero del male, e nonostante la fatica di pensare. Come è possibile che oggi si possa ancora credere nonostante tanto male e tante sfide. Come è possibile credere e affidare la storia a uno che sembra dormire mentre la barca della nostra vita è sballottata? Eppure, sono convinto che non è vero che oggi è più difficile credere. Ogni epoca ha i suoi santi e i suoi tiranni, come ogni storia personale ha le sue resistenze e le sue esplosioni di fede, le sue depressioni e le sue avventure d’amore. Oggi forse ancora non abbiamo saputo rilanciare la fede con le giuste maniere, le giuste testimonianze, il giusto linguaggio. “Giusto” nel senso di aggiustato per il nostro tempo: tagliato, cucito e indossato su misura per il nostro tempo e le nostre sfide. In questo, il cammino sinodale vuole essere un prezioso tempo di riflessione per capire quali zavorre sganciare e scoprire che la risposta all’individualismo ecclesiale contemporaneo è solo una e sempre la stessa: condividere la passione per il Vangelo.
Ma quindi: che cosa devo fare? Un’unica cosa: credere! Credere che senza di te non si può fare, Credere che Dio non s’è sbagliato a crearti così. Credere che è possibile credere solo all’amore. Credere che la vita è troppo breve per essere egoisti (don Luigi Verdi). Credere che «la vera sfida è debuttare ogni giorno, tutto il resto è repertorio (Cristicchi). Credere che ogni uomo, in ogni istante, sta in equilibrio precario sulla soglia tra l’eternità e il nulla (Turoldo), tra Dio e l’io, tra l’amore e l’inferno. Per questo la fede è un atto, è roba da fare. È un’arte da manutentori e da scultori: la fede aggiusta il senso del mondo, rischiara il significato del vivere, del morire e del soffrire, togliendo tutta la buccia che non serve, come la pietà Rondanini che viene liberata dalla prigione del parallelepipedo di marmo di Carrara (Michelangelo).
Per questo la fede accelera in ogni battezzato l’umanità, il suo processo di umanizzazione e fa emergere tutto il potenziale umano che sta nascosto e spesso schiacciato nel cuore di ogni cristiano. E la cosa ancora più sorprendente è che solo la nostra fede in Gesù sa raccontarci il mistero della congiunzione tra l’umanità più nobile e la divinità più umile. Il Natale è questo racconto: la nobiltà del cuore umano dilatato d’amore coincide con l’umiltà del cuore divino svuotato fino a diventare di carne. E una persona è più umana quando più ama e inizia ad essere divino, ancora quando più ama.
don Giammaria Canu