L’amor non si comanda.
Per un bel tratto della sua vita il vescovo Agostino rimase ammaliato da quel fulmine al ciel sereno che è il nuovo nome del Dio di Gesù: Dio si chiama “Amore”, punto. Lo riporta san Giovanni nella sua prima Lettera (4,16), e sicuramente lo custodiva nel suo cuore da quando il Maestro gli ha permesso di «stare seduto a tavola accovacciato nel suo seno» (letteralmente da Gv 13,23, il racconto dell’Ultima Cena). Da allora ha iniziato a testimoniare: «non chiamatelo più Dio, chiamatelo direttamente Amore, perché Gesù ha ribattezzato così il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, e ogni volta che vedete l’amore vero, quella è la firma del Dio di Gesù. E a me, non chiamatemi più Giovanni, ma chiamatemi: Il-discepolo-che-Gesù-amava, sarà pure lungo ma è la sintesi, il succo della mia vita». Sicuramente il buon Giovanni, pardon!, Il-discepolo-che-Gesù-amava, aveva pure avuto conferma da Maria, pardon!, La-discepola-che-Gesù-amava, che non faceva altro che raccontare di come quel figlio dal suo seno al Calvario non cessava di essere Dio-Amore: «Come nel grembo, e adesso in croce, ti chiama amore questa mia voce» (De André, Tre madri). L’amore che ribattezza anche la croce, che inventa nuovi nomi, declina nuove identità, inaugura nuove storie, e tu smetti di subire la vita e inizi veramente a vivere: «continuerai a farti scegliere, o finalmente sceglierai» (sempre De André, Verranno a chiederti del nostro amore)!
Torniamo ad Agostino tormentato (lui direbbe “inquieto”) dal nuovo nome di Dio-Amore: «anche il malvagio può ricevere i sacramenti; però non può avere l’amore ed essere malvagio. Noi benediciamo l’amore e detestiamo l’iniquità. E infatti, quanto beneficio è venuto al genere umano dal tradimento di Cristo? Forse che Giuda pensava questo nel tradire? Dio ha pensato alla nostra salvezza e per quella siamo stati redenti. Giuda pensava invece al prezzo per il quale vendete il Signore. Tanto vale l’amore! Vedete che è esso solo che differenzia le azioni degli uomini. Esse non si distinguono se non dalla radice dell’amore. Infatti, possono succedere molte cose che in apparenza sono buone, ma che non derivano dalla radice dell’amore. Alcune cose in verità sembrano aspre e crudeli ma esse sono dettate dall’amore. Dunque, una volta per tutte, ti viene proposto un breve precetto: ama e fa’ quello che vuoi. Se tu taci, taci per amore; se tu parli, parla per amore; se tu correggi, correggi per amore; se tu perdoni, perdona per l’amore. Sia in te la radice dell’amore; da questa radice non può derivare se non il bene». Ad amare non si sbaglia mai! Se ami, non sbagli! Ama e fa’ quello che vuoi!
Dal Buon-Bel Pastore si impara ad amare. E amare non è garantire all’amato: non sbaglierai, non soffrirai, non avrai mai paura, ma è confermargli: tu puoi vivere tutto, accettare e affrontare tutto. E glielo puoi dire perché per l’amato diventi presenza inossidabile, a volte discreta e a volte cocciuta, a volte osservante e a volte abbracciante, a volte brezza e a volte tempesta, a volte deserto e a volte oceano. Ecco cosa Giuda s’è perso scappando da quel Cenacolo e obbedendo alla sua matematica finanziaria: la bellezza di obbedire all’Amore, come fa tutto l’universo (Battiato) che della matematica finanziaria se ne infischia e vive bene per quello.
C’è forse un piccolo errore di interpretazione quando sentiamo che Gesù offre il “comandamento dell’amore”. Non si tratta del comandamento il cui contenuto è “amarsi come Dio ci ama”. Ma si tratta del comandamento che è l’amore. L’amore non ha bisogno di comandamenti, anzi «non sopporta l’imperativo» (Pennac): l’amore si arrangia da solo, è lui già il comandamento. Non so se rendo l’idea, ma nel caso basta chiedere ai fidanzati: puoi fare in modo di non amare la tua ragazza? Oppure alle mamme: puoi fare a meno di amare tuo figlio? No, perché in gioco c’è la gioia: arriva il momento quando le cose pesanti non sono più un sacrificio, ma una gioia e ti dispiace per tutte quelle volte in cui hai perso occasione di amare perché a perderci è stato il tuo capitale di gioia.
C’è un pezzo struggente dei Promessi Sposi che dà colore e profondità a tutto il romanzo della Providenza. È il monologo di padre Felice (che incredibile genialità manzoniana quella di far dirigere il lazzaretto a uno che porta il nome “Felice”) che ai superstiti della peste: «Per me e per tutti i miei compagni, che, senza alcun nostro merito, siamo stati scelti all’alto privilegio di servir Cristo in voi; io vi chiedo umilmente perdono se non abbiamo degnamente adempito un sì gran ministero. Se la pigrizia, se l’indocilità della carne ci ha resi meno attenti alle vostre necessità, men pronti alle vostre chiamate; se un’ingiusta impazienza, se un colpevol tedio ci ha fatti qualche volta comparirvi davanti con un volto annoiato e severo; se qualche volta il miserabile pensiero che voi aveste bisogno di noi, ci ha portati a non trattarvi con tutta quell’umiltà che si conveniva, se la nostra fragilità ci ha fatti trascorrere a qualche azione che vi sia stata di scandalo: perdonateci!». È la predica di chi sa che l’uomo ama sempre troppo poco e troppo tardi e a rimetterci è sempre la gioia.
don Giammaria Canu