DICEVANO I PADRI – a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 28 aprile 2024.

Promessa di vite.

 

«Io sono la vite vera». Altra promessa di vita e di vite. Ancora una volta una pretesa che risponde perfettamente al nostro desiderio profondo di restare attaccati a quella persona e a quella realtà che nutre veramente la nostra esistenza incerta, fragile e spesso contradditoria.

Queste domeniche sono tutte una grande esegesi dei racconti pasquali. Cosa significa che Cristo è risorto? Significa che la linfa che “rende viva la nostra vita” non ha limiti di spazio o di tempo, ma è linfa eterna che ha già vinto il male, il peccato e la morte. C’è un solo esercizio da fare: restare aggrappati, rimanere, sostare, accogliere, ospitare, ritornare, ascoltare, godersi, interrogare, abbracciare, chiacchierare e riposare in Dio. Stare in Dio, operare in Dio, vivere in Dio: questa è la Vita. Vivere non è più stare di fronte, a fianco o appresso a Dio, ma stare in Dio, sentirsi ospiti in Dio, amati e avvolti, capaci di fare le cose che fa Dio.

A conferma di ciò, c’è questa bellissima immagine protagonista del Vangelo di questa domenica: Gesù è la vite e noi i tralci della stessa vite. Non so se si è percepita la finezza: io e Gesù, siamo la stessa pianta, occupiamo lo stesso suolo, bagnati dalla stessa pioggia e scaldati dallo stesso sole. E il vero frutto della vita lo si produce solo se lasciamo operare il Gesù che abita in ciascuno di noi. La profondità della fede è proprio questa intima e beatissima unione con Gesù Risorto. Se ne accorse Paolo: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20). E ciò vuol dire anche che i frutti della Pasqua avvengono tra le mie mani, si dicono nelle mie parole, ac-cadono nelle mie azioni. L’efficacia della Pasqua è operativa attraverso la mia vita. La credibilità della fede pasquale è affidata alla mia presenza nel mondo, dipende da me, dalla mia capacità di trasformare la linfa in frutto, di essere ponte tra Dio e il mondo. Dio si fida e scommette nella mia fruttuosità. Che in fondo è un rinnovare la sua promessa di vita, cioè la promessa che la sua Vita si prolunghi nella mia vita.

Ho conosciuto tanti uomini e donne di fede, di quelli veramente buoni e affidabili e ho sempre assaporato il fascino della loro libertà davanti alla vita, soprattutto davanti alle sue (s)torture. Ho gustato i frutti buoni della loro vita semplice e libera e ho pure scoperto che in comune avevano la stessa risposta positiva alla domanda: «dopo il tuo passaggio, la vita è aumentata?». Mi affascina e mi interroga sapere che a me è affidata questa promessa di vita: tu puoi aggiungere e moltiplicare la vita col tuo passaggio nella storia dell’umanità. C’è proprio da chiedersi dopo ogni esperienza: «dietro di me, dove sono passato, è rimasta più vita o meno vita?» (Ermes Ronchi). E se la vita è cresciuta, è stata opera mia o opera di Dio?

Lascio subito la parola a sant’Agostino che risponde così a questa seconda domanda legata ai frutti:

«Affinché nessuno pensi che il tralcio può produrre almeno qualche piccolo frutto da se stesso, il Signore, dopo aver detto che chi rimane in lui produce molto frutto, non dice: perché senza di me potete far poco, ma: senza di me non potete far nulla. Sia il poco sia il molto, non si può farlo comunque senza di lui, poiché senza di lui non si può far nulla. Infatti, anche quando il tralcio produce poco frutto, l’agricoltore lo monda affinché produca di più; tuttavia, se non resterà unito alla vite e non trarrà alimento dalla radice, non potrà da se stesso produrre alcun frutto. Quantunque poi il Cristo non potrebbe essere la vite se non fosse uomo, tuttavia non potrebbe comunicare ai tralci questa fecondità se non fosse anche Dio […]. Rimanendo in Cristo, che altro possono volere i fedeli se non ciò che è conforme a Cristo? Che altro possono volere, rimanendo nel Salvatore, se non ciò che è orientato alla salvezza? Una cosa infatti vogliamo in quanto siamo in Cristo, e altra cosa vogliamo in quanto siamo ancora in questo mondo. Può accadere, invero, che il fatto di dimorare in questo mondo ci spinga a chiedere qualcosa che, senza che ce ne rendiamo conto, non giova alla nostra salvezza. Ma se rimaniamo in Cristo, non saremo esauditi, perché egli non ci concede, quando preghiamo, se non quanto giova alla nostra salvezza. Rimanendo dunque noi in lui e in noi rimanendo le sue parole, domandiamo quel che vogliamo e l’avremo. Se chiediamo e non otteniamo, vuol dire che quanto chiediamo non si concilia con la sua dimora in noi e non è conforme alle sue parole che dimorano in noi, ma ci viene suggerito dalle brame e dalla debolezza della carne, la quale non è certo in lui, e nella quale non dimorano le sue parole».

 

don Giammaria Canu

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