Per le tue ferite ho conservato le mie cicatrici.
«Vieni, vieni, tocca, e credi. Tu hai detto: Se non toccherò, se non metterò il mio dito, non crederò. Vieni, tocca, metti il dito. E non essere incredulo, ma credente. Vieni, metti il dito. Conoscevo le tue ferite; per te ho conservato la mia cicatrice» (sant’Agostino). Il senso della risurrezione riposa già nascosto nell’Incarnazione: è questione della carne umana conosciuta, vissuta, sofferta da Dio. Il segreto del Dio di Gesù è aver indossato la carne umana, essersi rivestito delle sconfitte umane e non aver nemmeno azzardato a cancellarle: quel corpo dell’Uomo-Dio era un foglio in cui gli uomini scrivevano la loro storia con inchiostro eterno, un pentagramma in cui l’umanità eternamente cantava i fallimenti, le schiavitù, le lentezze, il peccato. Dio si lascia scrivere e trasforma l’alfabeto dell’odio in un solfeggio d’amore. Da quel Venerdì di passione la musica del Golgota diventa la colonna sonora dell’eternità.
Domenica prossima fa capolino Tommaso. A me sembra che il quarto evangelista ce lo voglia descrivere come un privilegiato. È l’unico che sfida la paura per la città ed esce dalla casa cupa e triste dove erano gli altri dieci. È l’unico che dichiara inaffidabili le parole degli amici perché da inaffidabili si sono comportati tutti, lui compreso e non vedeva perché le cose fossero cambiate così in fretta. È l’unico che, finalmente, pretende da Dio qualcosa di più di un semplice miracolo da circo e prende sul serio l’ipotesi che quelle ferite possano essere l’unica risposta alla struggente domanda: che senso ha tanto dolore innocente, tanta cattiveria umana, tante sofferenze immeritate? È l’unico che il Risorto sceglie come nostro gemello (“Didimo”, cioè “gemello” era il soprannome di Tommaso), perché anche a noi Dio lascia il tempo del dubbio, delle domande, dei desideri per sprofondare così in fondo che l’unica possibilità sarebbe gridare il grande bisogno di Lui. È l’unico che avrà sulle sue labbra la professione di fede netta, decisa e completa in Gesù Cristo, Signore e Dio, con la potente aggiunta del pronome “mio”, cioè: non solo sei Tu il Dio che ha fatto uomini, bestie, cieli, galassie e universi; non solo sei Tu il Dio che «in modo mirabile ci hai creati a tua immagine, e in modo ancora più mirabile ci hai rinnovati e redenti» (Colletta della Messa del Giorno di Natale). Non solo sei morto per me, ma sei anche risorto per me, con me e in me! È la risurrezione della fede di Tommaso e dei discepoli quella che celebreremo domenica prossima: Dio diventa il nostro Dio, il Dio delle nostre risurrezioni, il Dio che trasforma le ferite in feritoie da cui far entrare luce per illuminare l’intera casa. E tutto perché quel Dio attraverso quelle mie stesse ferite ci è “passato” (verbo della Pasqua) e se le porta appresso per l’eternità, pronto a mostrarle a chiunque domandi ragione delle proprie ferite ingiuste. Così il cardinal Martini, gigante dell’esegesi spirituale e della lectio divina:
«Ripartire da Dio vuol dire sapere che noi non lo vediamo, ma lo crediamo e lo cerchiamo così come la notte cerca l’aurora. Vuol dunque dire vivere per sé e contagiare altri dell’inquietudine santa di una ricerca senza sosta del volto nascosto del Padre. Anche noi dobbiamo denunciare ai nostri contemporanei la miopia del contentarsi di tutto ciò che è meno di Dio, di tutto quanto può divenire idolo. Dio è più grande del nostro cuore, Dio sta oltre la notte. Egli è nel silenzio che ci turba davanti alla morte e alla fine di ogni grandezza umana; Egli è nel bisogno di giustizia e di amore che ci portiamo dentro; Egli è il Mistero santo che viene incontro alla nostalgia del Totalmente Altro, nostalgia di perfetta e consumata giustizia, di riconciliazione e di pace. Come il credente Manzoni, anche noi dobbiamo lasciarci interrogare da ogni dolore: dallo scandalo della violenza che sembra vittoriosa, dalle atrocità dell’odio e delle guerre, dalla fatica di credere nell’Amore quando tutto sembra contraddirlo. Dio è un fuoco divorante, che si fa piccolo per lasciarsi afferrare e toccare da noi. Portando Gesù in mezzo a voi, non ho potuto non pensare a questa umiliazione, a questa “contrazione” di Dio, come la chiamavano i Padri della Chiesa, a questa debolezza. Essa si fa risposta alle nostre domande non nella misura della grandezza e della potenza di questo mondo, ma nella piccolezza, nell’umiltà, nella compagnia umile e pellegrinante del nostro soffrire».
E gli fa eco Turoldo:
Pure per noi sia Pasqua, Signore:
vieni ed entra nei nostri cenacoli,
abbiamo tutti e di tutto paura,
paura di credere, paura a non credere…
Paura di essere liberi e grandi!
Vieni ed abbatti le porte dei cuori,
le diffidenze, i molti sospetti:
tutti cintati in antichi steccati!
Entra e ripeti ancora il saluto:
«Pace a tutti», perché sei risorto;
e più nessuno ti fermi: tu libero
di apparire a chi vuoi e ti crede!
Torna e alita ancora il tuo spirito
come il Padre alitò su Adamo:
e dal peccato sia sciolta la terra,
che tutti vedono in noi il Risorto.
Credere senza l’orgoglio di credere,
credere senza vedere e toccare!…
Tu sai, Tommaso, il dramma degli atei,
tu il più difficile a dirsi beato!
don Giammaria Canu