Appuntamento nei paradisi.
Il Vangelo di domenica scorsa aveva già messo le mani avanti: «non vi lascerò orfani… il Padre vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre». Davanti ad ogni “per sempre” il cuore raggela e sente subito puzza di bruciato: come posso io parlare di qualcosa che mi apparterrà “per sempre” se “per sempre” non sono nemmeno io: ti amerò per sempre, resterò fedele per sempre, non ti abbandonerò mai. Io mortale ci sto stretto con i “per sempre”. È il grande annuncio pasquale, il cuore pulsante della nostra fede a offrirci la certezza che col Crocifisso-Risorto è possibile il “per sempre”, anzi, che il “per sempre” è la grande verità della mia vita, che il “per sempre” è il modo di vivere con Dio e in Dio: «io vivo e voi vivrete. Io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi», diceva Gesù la scorsa domenica. E questa prossima domenica, le ultimissime parole di Gesù ai suoi discepoli nel vangelo di Matteo suonano proprio lo stesso spartito ma con un’orchestra diversa da quella di Giovanni: «io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo». È possibile acchiappare la verità: voi siete fatti per vivere per sempre e per far vivere per sempre, ripartendo per sempre dalla Galilea dove tutto è iniziato, ritornando in Galilea zeppi di speranza e sfasciati dalle ferite, proprio come ti rendi conto mentre fai l’appello e manca qualcosa della vita, c’è un vuoto, una ferità, un abisso da colmare: «In quel tempo di undici discepoli andarono in Galilea». In Galilea si riparte in undici, cioè monchi, zoppi, reduci dalla battaglia che ha perso per strada uno dei dodici, Giuda. Insomma, si riparte per risorgere e per ascendere sempre e per sempre, con Gesù non più tra noi ma in noi, dentro di noi, che spinge dall’interno perché ogni nostra Galilea ferita e calpestata sia trampolino per nuove ascensioni, per paradisi sempre nuovi. E questo vuol dire che l’annuncio centrale del cristianesimo è la bella notizia che già su questa terra possiamo vivere da “uomini viventi” (zoontes) e non da “mortali” (thnetoi) come vuole l’epica classica delle divinità egoiste e degli eroi che si conquistano con valore il paradeisos futuro. Per il cristianesimo, il paradiso è già qui e a lavoro nelle nostre Galilee «fino alla fine (consumazione completa) del mondo», quasi ad aspettare che anche l’ultimo dei mortali diventi vivente (entri nella Vita attraverso la porta della Galilea).
A proposito di “paradiso”, il luogo dei “per sempre”, ecco due sferzanti suggestioni di Erri de Luca, un acuto gigante della saggistica, poesia e narrativa contemporanea:
«La cantica dantesca di minore gradimento per i lettori è il Paradiso. I santi annoiano. Se si fa uno studio sull’impatto ambientale del Paradiso, si finisce per installarlo in cielo. In terra ingombra, in mare escluderebbe quelli che preferiscono la montagna. La ricompensa eterna consola, ma sazia presto. Troppo miele provoca rigurgito. Il Paradiso, maiuscolo e prevedibile, è un ergastolo di beatitudini. È tempo di costringerlo a migrare, di riportarlo indietro alla sua origine. In antico ebraico è pardès, un terreno di alberi da frutto, ben racchiuso tra muri. Non è in cielo, luogo che non ha recinti per nuvole, non è in mare che non ha confini per le onde. Il pardès è in terra. In ebraico dispone di plurale, ce ne sono diversi. Ne contemplazione, è opera di lavoro, irrigazione, potature, innesti. Non è beatitudine, e sudore. Non è pace, ma lotta contro le avversità. Il pardès si trova al suolo, ha durata assegnata poi si dissolve, si riforma altrove. È stato di eccezione. Il tempo al suo interno è l’insetto sigillato nell’ambra, formula elementare dell’eternità. L’umanità si regge sul pardès. “E non è d’oro, perché l’oro è niente e senza sole nun sarrìa lucente”».
don Giammaria Canu