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LA DOMENICA SULLE SPALLE DEI GIGANTI - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 2 Aprile 2023.


Entrare nella Grande Settimana.


Le porte della Grande Settimana si spalancano. In oriente fin dai primi secoli la chiamano “Grande”, non “Santa”. Perché in oriente sentono di più il sapore del “santo” inteso ebraicamente come “separato”, “distanziato”, “allontanato da ciò che è contaminato dal fango”. In oriente Santo è Dio e tutto ciò che ha la sua firma (come le Sante Icone). Ma in questa Settimana sarebbe blasfemo riconoscere con nettezza ciò che è divino e ciò che è umano: è la settimana dell’impasto maturo del Verbo con la carne, del cielo con la polvere, del lievito con la massa, pronta al forno e già carica della promessa di una flagranza prelibata. Santa, quindi, no! Ma “grande” si! Tutto in questa settimana si gonfia: il tempo si dilata; il cuore di inzuppa di ri-cordi, di preghiera e di affetti; la Chiesa ospita le coreografie più potenti e le liturgie più dense, concentra le parole più alte per raccontare il mistero dell’amore più grande; i gesti più minuscoli si guardano dal microscopio.

Il pensiero davanti all’abisso di un mistero così grande si arrende: «ma non una spina Tu/ gli levasti dalla corona./ Trafitto anche il pensiero:/ non può, non può lassù/ il pensiero non sanguinare!/ Oh le ferite della mente», poetava Turoldo, forse parafrasando «il venerdì santo speculativo» di Hegel, dove la fatica del pensiero raggiunge il massimo degli sforzi provando a inglobare ogni dolore umano come un momento del dolore assoluto di Dio sulla croce. Ma non si arrende del tutto il pensiero se diventa il “pensiero di Cristo” (1Cor 3,16), il “pensiero della croce” (1Cor 1,18), se si affida, cioè, alla Rivelazione. E così la ragione tifa per la fede, la grande sua alleata, confidando nella promessa di «colmare gli abissi e salvare dal Nulla le cose» (ancora Turoldo).

Bene. Per le cose grandi, servono anche parole grandi e grandi persone, grandi teste, grandi cuori e grandi viscere materne, come quelle di Grazia Deledda. Così dipinge la Grande Settimana di Maria Concezione in La chiesa della solitudine (ultimo romanzo segnato dalla morte ormai vicina nel 1936 a causa di un tumore che Grazia condivide con la protagonista del romanzo. Per Concezione il tumore sarà come una condanna atroce che esclude persino la possibilità di lasciarsi amare da Arnoldo che l’avrebbe amata così fragile com’era).

«Il mercoledì santo, Concezione preparò nella chiesetta il Sepolcro di Nostro Signore. Stese una coperta e vi depose al centro il crocefisso di legno, che il resto dell’anno rimaneva appeso, stanco e rassegnato, alla parete nell’angolo della chiesa. Steso sulla coperta parve un altro; il viso dolce e olivastro, bucato dai tarli come quello di uno che ha sofferto il vaiolo, pulito dalla polvere, si rivolgeva in alto, gli occhi si socchiudevano, le membra tutte, pur così inchiodate e insecchite, si distendevano, nude e d’una castità di ramo stroncato dal vento, con un vero abbandono di riposo. Era, sì, come il ramo caduto sull’erba, stroncato dal vento o dal potatore, non morto, anzi pronto a germogliare di nuovo, se la terra lo riprende: e Concezione, in quel giorno di acerba primavera, sentiva anche lei qualche cosa di simile. Sette piattini fondi, dove ella aveva fatto germogliare nell’acqua un po’ di grano, furono collocati, come diadema di rinascita, intorno alla testa del Cristo: era bianco, il grano, e odorava di amido: come simbolo era melanconico, quasi innaturale, come i capelli dei neonati, cresciuti nel buio delle viscere materne. Quando ebbe finito, Concezione s’inginocchiò sul lembo rimasto libero del tappeto, piegandosi a baciare i piedi di Nostro Signore: e le parve che il freddo di quelle dita stanche non fosse il freddo della morte, ma quello di un povero che non ha fuoco e aspetta il primo sole primaverile per riscaldarsi.

Ed ella pensò ad Aroldo: anche lui, povero, anche lui in attesa di un raggio d’amore. La pietà, la tenerezza per il Cristo morto, si fusero, in lei: poiché, se Aroldo non si era più fatto vedere, ed ella credeva di esserne contenta, in fondo sentiva che la loro storia non doveva finire così: e l’immagine di lui le rimaneva nell’anima, senza mai chetarsi, come di uno che annega ma che con tutte le forze della vita tende a risalire a galla e salvarsi. Ella non gli tendeva una mano, ma neppure lo respingeva. “Non è peccato, il mio”, dice al Cristo morto per amore degli uomini; “non vado contro la tua legge: lascia dunque, o Signore, che io ami senza speranza, che io sola soffra per lui.” A giorni - in quei primi giorni di primavera - si sentiva anche lei andare a fondo: se non puoi aiutarmi a vivere - le diceva l’altro - vieni e muori con me. Ed ecco, mentre ella è ancora piegata sul tappeto, la porta rimasta socchiusa si apre, e una striscia di luce arriva fino a lei: la figura rapida, silenziosa di Serafino attraversa quella scìa luminosa, e prima che ella si sollevi, le sfiora la testa con la mano…».



don Giammaria Canu


A. Giacometti, Uomo che cammina (1990). Solo così emaciati si entra nella Grande Settimana!

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