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DI DOMENICA IN DOMENICA - a cura di don Giammaria Canu

Domenica, 27 Marzo 2022.


Elogio dell’inutile misericordia.


È sempre decisivo in quaresima riprendere in mano il concetto di misericordia.

Il dubbio che mi perseguita leggendo la parabola del fico sterile di domenica scorsa e del padre misericordioso di domenica prossima è lo stesso: chi garantisce al vignaiolo e al padre che sia il fico, sia il figlio prodigo resteranno fedeli alla conversione avvenuta in loro? Non sarà che, come hanno sciupato l’uno il terreno e l’altro l’eredità, sciupino anche la pazienza e la misericordia di chi dona nuove possibilità? Oppure, non sarà che Gesù voglia allegare alle parabole anche questo insegnamento nuovo: la misericordia è a fondo perduto, un’arte da spreconi, una tela di Penelope su cui cala inesorabile la notte per essere disfatta, un investimento in-utile (nessun utile profitto ma solo rischi). Per questo mi sento di consentire a Luigi (il mio amico giovane dal nome ovviamente inventato) che in un dialogo sinodale mi hanno schiettamente e intelligentemente risposto: «credere è inutile ai nostri giorni. Tanto non siamo più capaci di fare sacrifici e rimanere fedeli ad un impegno. È uno spreco di tempo anche per Dio e per la Chiesa! Dovrebbero pensare a far smettere le guerre e aiutare le persone povere». Una valanga di verità!

Facciamo un po’ di ripasso sulla misericordia di Dio.

Il concetto di misericordia dei greci è un sentimento interiore e intrappolato nell’intimo. È la pietà, la compassione, o meglio la commiserazione degli dèi dell’Olimpo che, capricciosi quanto o più degli uomini, possono derogare alle proprie funzioni di punitori universali e non vendicarsi o non arrabbiarsi più di tanto contro le malefatte dei mortali e indire un’amnistia. La chiamano éleos ed è propriamente ciò che un dio prova davanti alla miseria umana. Ma rimane sempre dio, senza contaminarsi di putrida umanità peccatrice, anzi, marcando ulteriormente la differenza. “Distanza ontologica” la chiamano i filosofi e i teologi dialettici, impegnati ad ingigantire la sempre più grande “dissimilitudine” tra il Creatore e la sua creatura e terrorizzati dall’orrore di poter scoprire con chiarezza qualcosa di Dio per analogia con le cose di questo mondo.

L’ebraico hesed, invece, aggiunge alla éleos greca il pezzo assente: il Dio di Abramo ha una misericordia operativa: questo è hesed. Così noi abbiamo occasioni di incontrare la Misericordia in opera: Dio non si pre-occupa soltanto, ma si occupa. Dio inter-viene, si fa trovare presente, prende parte, si sporca, e in modo spudorato, fino ad arrivare – in barba agli dèi olimpici e ai Baalim (dèi) assiri inaccessibili – al Dio di Gesù, il Verbo fatto carne, fatto eresia, Dio “sporco” d’umanità.

C’è ancora un passo da fare. La “miseri-cordia” latina ha dentro il riferimento al cuore (cor, cordis in latino, cardia in greco), organo della passione, dell’amore, della vera interiorità. Ma l’ebreo Gesù aveva in mente pure un’altra radice della misericordia: l’organo che “secerne” misericordia come un fluido divino non è il cuore, ma l’utero materno. C’è nella misericordia tutto il femminile divino: non semplicemente c’è la bontà del cuore che prova un sentimento, ma fa comparsa pure la finalità: che l’altro rinasca. Chi mi ha amato veramente, non semplicemente ha compiuto un gesto di tenerezza nei miei confronti, ma si è preso cura che io rinascessi, si è preoccupato di non lasciarmi lì dove stavo, spesso a rischio del proprio interesse. Chi usa misericordia offre occasioni perché l’altro rinasca. E lo fa senza guardare al tornaconto, al proprio utile: amare è sempre in-utile, ma sempre gravido di vita.

E, infine, c’è un’altra cosa che ha spinto Gesù a raccontare le parabole della misericordia (il capitolo 15 del Vangelo di Luca): anche noi possiamo imparare questo stile di Dio. Anzi, al mio amico Luigi, a cui ho promesso di riflettere qualche giorno sulla sua risposta, io mi sento solo di controbattere così in punta di pedi: se Dio in Gesù ha inventato l’azione del “misericordiare” (verbo coniato da papa Francesco!) è proprio perché vuole riposarsi e lasciare a noi l’opportunità di «darci al meglio della vita» (Christus vivit, esortazione di papa Francesco dopo il sinodo sui giovani, n.143) e il meglio della vita è generare alla vita, rigenerare altri a nuova vita, rischiare l’inutilità, ma volare alto e far assaggiare al cuore l’ebrezza dell’abisso eterno per cui è stato tessuto da Dio.


don Giammaria Canu


V. van Gogh, Campo di grano con volo di corvi (1890).

La perturbazione del cielo popolato da cupi corvi contagia anche la speranza del grano: è espressione del turbamento interiore. Van Gogh inizia a smettere di ricercare l’utilità del bello per implorare uno sguardo amico e misericordioso capace di tracciare insieme un sentiero sulla terra incerta e minacciosa (il blu-giallo ucraino invaso dai caccia russi e il verdastro delle mimetiche della resistenza): «è il mio cuore il paese più straziato» (Ungaretti, San Martino sul Carso).

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